Basilio Genovese

Per onorare la giornata della memoria quest’anno l’Istituto “R. Guttuso” di Milazzo ha focalizzato l’attenzione sugli italiani che hanno subito la deportazione, accogliendo nella mattinata del 26 gennaio nella sede del liceo artistico di via Gramsci a Milazzo un reduce della seconda guerra mondiale scampato allo sterminio del lager nazista. L’evento, sostenuto dalla dirigente Delfina Guidaldi, frutto di un progetto condiviso tra le professoresse Torre, Arizzi, Calabrò, con la collaborazione dei docenti di lettere, di progettazione, dei laboratori artistici del plesso, ha riscosso un vero successo tra gli studenti.

LA STORIA. Il signor Basilio Genovese, classe 1920, con la sua narrazione ha fatto rivivere all’uditorio tutta la sua esperienza di soldato, dalla partenza, il 13 marzo del 1940 al ritorno a casa, l’8 agosto del 1945. Partito da Barcellona P.G., sua città natale, fu arruolato nel Primo reggimento Fanteria di Vercelli. Ha raccontato sorridendo i suoi esordi, le difficoltà dell’addestramento alla guida del carro armato, gli inconvenienti, le prime ferite. Ha poi illustrato l’esperienza del servizio militare in Liguria al confine con la Francia e di guardia in una polveriera. Intanto imperversava la guerra.

Le vicissitudini più amare arrivarono nel settembre del 1943, quando, dopo l’armistizio e l’abbandono dell’alleanza con Hitler da parte dell’Italia, i nazisti iniziarono le persecuzioni e le deportazioni dei soldati italiani. Sparpagliati e nascosti nelle campagne i nostri militari cercavano di scampare ai rastrellamenti, ed alcuni di essi riuscirono a farlo vestendo abiti clericali che alcuni preti erano riusciti a fare pervenire (prova del coraggio di uomini che, a rischio della loro stessa vita, cercavano di salvarne altre). Interessante un altro dettaglio, a questo punto della storia: i tedeschi fecero diramare un appello ai soldati italiani perché si arrendessero e deponessero le armi: in cambio sarebbero stati riaccompagnati nelle terre di appartenenza, a Nord e a Sud. Era un meschino tranello: inquadrati e tradotti in treno i militari italiani furono prima trasportati a Bologna e poi, di lì, con un lungo viaggio in convogli merci, sprangati, senza acqua né cibo, indirizzati in Germania. Tra loro il signor Genovese, che racconta: “Quando il vagone fu aperto in territorio austriaco, dove la sosta in stazione fu di circa 12 ore, si avvicinarono a noi dei civili, che ci chiesero orologi, catenine d’oro, qualsiasi valore potessimo avere addosso in cambio di qualche bevanda e di un po’ di cibo. La fame è brutta…”. Furono depredati per il primo cedimento ai morsi della fame, che avrebbero purtroppo sperimentato severamente di lì a poco.

Giunti in Germania videro un campo di smisurata grandezza, con un portale enorme, varcato il quale, inquadrati, i soldati prigionieri udirono il discorso di un gendarme tedesco. E qui il racconto del reduce: “Parlando in italiano, da un pulpito, ci fece una bella morale che si concluse con le parole W l’Italia e W il Duce, W la Germania e W Hitler. A uno di noi, un ragazzo, poveretto, scappò un sorriso. Fatto uscire dalla fila fu freddato con un colpo di pistola e stramazzò al suolo sotto gli occhi di tutti”. Il signor Genovese lo dice a voce bassa, scuotendo la testa, senza altro commento. Nel campo si doveva lavorare dodici ore al giorno, scavando e spalando in miniera, o sui binari, nel freddo inverno dall’Alta Sassonia; la squadra di una decina di operai era sotto la continua sorveglianza di due guardie. Uno dei due era un “vero aguzzino, perché aveva perso due figliuoli in guerra”, ricorda il signor Genovese, giustificando forse così la crudeltà con la quale li perseguitava. Una volta, ad esempio, Basilio rischiò grosso, e fu perquisito rabbiosamente, quando videro che qualcuno (era un italiano, civile, dall’altra parte del campo) gli aveva dato un tozzo di pane. Lui, lestissimo, lo aveva nascosto in una scarpa, così la guardia non glielo trovò addosso. Storie di fame tremenda: si mangiava una sola volta al giorno, la sera: meno di 200 grammi di pane e una ciotola di brodo. In questo lager, collocato nei pressi della località di Oschatz, (vicino all’attuale Dresda) Stalag IV G, Basilio Genovese rimase fino al mese di ottobre, e arrivò a pesare 32 chili. Al limite delle sue forze, quando chiese una visita medica, fu orrendamente picchiato da due tedeschi e gettato in una fossa antischeggia, nella neve. Condotto poi in infermeria, qui la compassione di un medico francese gli ottenne un breve periodo di riposo con doppia razione di cibo. Le sue condizioni di salute precarie indussero i tedeschi a dargli la possibilità di un’altra mansione: fu mandato a lavorare, in condizione schiavile, presso una famiglia di grandi proprietari terrieri. Ancora prigioniero, ma trattato in maniera accettabile, secondo il suo racconto, rimase presso quella “farm” per oltre un anno. Qui, nella testimonianza, la gratitudine per una famiglia che pur nelle fatiche di un lavoro duro, gli assicurò la sopravvivenza. Altri rischi, altri pericoli, legati ai bombardamenti, lo videro uscire miracolosamente illeso. All’inizio dell’estate del 1945 fu prelevato dagli americani per essere ricondotto in patria. Dopo un lungo viaggio di ritorno, non privo di ulteriori difficoltà e maltrattamenti, rientrò a casa nell’agosto del 1945.

La testimonianza del signor Genovese a scuola è stata limpida, lucidissima, intensa, nella sua sintesi, incoraggiata dall’attenzione e dal rispettoso silenzio di un uditorio di oltre 120 alunni. Stupiti e commossi dalla delicatezza del racconto, che sorvolava sulle efferatezze con strategici silenzi e con espressioni e gesti chiarissimi, gli alunni non hanno rinunciato a fare alcune domande, ad esprimere i loro sentimenti, a consegnare dei messaggi, dei gadjet, uno splendido ritratto dell’ospite (realizzato dall’alunna Marika Bucolo), un manufatto artistico creato per l’occasione dagli alunni della sede di Spadafora (che hanno assistito all’evento in video conferenza). Sorrisi e lacrime, strette di mano, fotografie, una degustazione di dolcetti fatti pervenire dall’Ipsceoa.

Il signor Genovese, uomo semplice ma di forti valori, si è rivelato, per la comunità scolastica, una fonte preziosa cui attingere per sapere e per riflettere. “Fare memoria” così vuole dire scongiurare il rischio dell’ignoranza e dell’indifferenza, perché, come ha recentemente affermato Giuliana Segre “l’indifferenza generale fa più male della violenza”. Ma non si è potuti rimanere indifferenti dinanzi al signor Basilio, piccino ma grandissimo, che alla veneranda età di 97 anni comunica vivacità, armonia, voglia di vivere. Perché lui, più volte vicino alla morte, ha rinunciato ai pensieri brutti, alla rabbia e al desiderio di vendetta, invece si è attaccato alla vita libero dalle catene della violenza e dell’odio.